Conclusa la visita i ragazzi hanno avuto l'occasione di visitare il centro cittadino, costeggiando i luoghi di culto di una Trieste dall‘anima multi-religiosa: le chiese cattoliche e ortodosse, di rito greco e di ritiro serbo, la chiesa evangelica luterana e la Sinagoga. Un percorso che ha fatto da premessa alla lezione del pomeriggio, allorché il gruppo ha raggiunto il museo della comunità ebraica locale (intitolato a Carlo e Vera Wagner) e ne ha “scoperto” i principali caratteri religiosi e culturali, economici e sociali; le luci, talora straordinarie, e le ombre, terrificanti, di una storia che tra Ottocento e Novecento l’ha vista precipitare da un ruolo di primo piano sulla scena triestina alla privazione dei diritti civili (con le leggi razziali fasciste, annunciate proprio qui da Mussolini) al dramma della persecuzione, della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio, della Shoah. Un'esperienza toccante, che ha permesso di comprendere meglio, e più a fondo, l’intera storia del nostro Paese.
Una storia che nel dna di Trieste - nel suo essere riuscita a far incontrare e convivere, incrociare e mischiare diverse tradizioni e culture, generando ricchezza materiale e spirituale, bellezza, poesia e letteratura - potrebbe trovare la chiave per soccorrere e accogliere chi arriva da altre terre e costruire una società davvero multiculturale. E pare suggerirlo anche la luna che splende, piena, su Piazza Unità d’Italia in fondo a questo giovedì di fine settembre.
La seconda giornata a Trieste ha portato i giovani “ricercatori” della memoria di confine nei luoghi in cui, negli anni della seconda guerra mondiale, le ideologie del Novecento hanno realizzato - fondandosi su quell’odio che l’essere umano, soprattutto se collocato in un contesto statale che cancella diritti civili e umani, tira spesso fuori contro ogni “diverso” percepito come minaccia - un sistema, burocratizzato, di eliminazione fisica dell’altro da sé, sul piano politico o razziale.
Questo racconta - anche grazie alla “veste” datale dall’architetto Romano Boico - la Risiera di San Sabba, campo di detenzione di polizia, di tortura e assassinio (l’unico in Italia con un forno crematorio), principalmente per partigiani e oppositori politici, e di transito verso i lager del Terzo Reich, in particolare per gli ebrei, durante l’occupazione nazista della città (1943-45). E questo insegna la Foiba di Basovizza - coperta dalla ruggine, voluta, di un monumento in ferro che intende suscitare angoscia - nella quale furono gettati e uccisi coloro che, in grandissima prevalenza italiani, nei giorni convulsi seguiti alla liberazione di Trieste da parte dei partigiani di Tito (maggio-giugno 1945), si opponevano alla “collocazione” del territorio giuliano, istriano e dalmata entro i confini della Jugoslavia comunista o potevano costituire un ostacolo in tal senso: fascisti ma anche partigiani di altre appartenenze ideali e politiche, rappresentanti delle istituzioni e “semplici” civili, prima ancora che italiani. A sottolinearlo, invitando a indagare e comprendere gli eventi, sempre, nella loro complessità, lo storico che ha accompagnato gli studenti in entrambi i luoghi della memoria, restituendone, con conoscenza appassionata e atteggiamento gentile, la profondità a novantotto occhi rapiti e commossi.
Il rientro in albergo - preceduto da una sosta di fronte ai “memoriali” degli irredentisti triestini e della loro lotta “patriottica”, conclusa, nel 1918, con l’annessione di Trieste al Regno d’Italia - è stato una discesa dal Parco della Rimembranza (a pochi passi dal Castello e dalla Cattedrale di San Giusto) “attraverso” il ventennio fascista (1922-43), preannunciato dall’incendio del Narodni Dom (da molti storici considerato il primo episodio squadrista nel nostro Paese), caratterizzato, dopo la presa del potere del PNF, dall’italianizzazione della città giuliana, con la marginalizzazione civile, politica e culturale della componente slovena, e segnato, nell’ultima fase, dalla brutalità contro oppositori, dissidenti e partigiani, dalle violenze e dalle torture celate dai muri di Villa Triste (poi emulata da altre analoghe “ville” e carceri in Italia) e dalla collaborazione con gli occupanti nazisti.
Quella brutalità che - proprio di fronte alle stanze dell’hotel Milano, che ospita il gruppo finalese - mostrò il comando tedesco impiccando, sulla facciata di Palazzo Rittmeyer, come rappresaglia per un attentato della Resistenza in quella che, lì, era la “Casa del soldato”, cinquantuno prigionieri politici, molti dei quali giovanissimi, e lasciando per cinque giorni i loro corpi esposti come monito per i cittadini. Oggi, dietro alle lapidi e alle corone di fiori che ricordano l’eccidio, il palazzo ospita il Conservatorio cittadino: a dirci che la memoria è la base indispensabile di ogni vera civiltà.
Redazione Morandi
Quinto giorno
Il viaggio del Morandi sul confine orientale si conclude, nel primo pomeriggio di sabato 30 settembre, tornando per qualche ora in terra slovena, nella piccola località di Kobarid, dove la musica e i costumi tradizionali e i banchetti di specialità enogastronomiche locali (si sta infatti svolgendo una sagra di paese) generano un effetto straniante in chi è lì per conoscere premesse, svolgimento e conseguenze della 12esima battaglia dell’Isonzo, una delle più drammatiche della Grande Guerra (con decine di migliaia di morti e feriti da entrambe le parti e circa un milione di profughi tra i civili friulani e veneti). Tra fine ottobre e inizio novembre 1917 l’esercito italiano, sotto la spinta dell’offensiva austro-ungarica supportata dall’alleato tedesco, subì una terribile disfatta, e fu costretto a ritirarsi fin sulla linea del Piave, da dove poi, riorganizzato nel suo stato maggiore e nella considerazione delle condizioni dei soldati, riavviò le operazioni che, dodici mesi dopo, lo avrebbero visto uscire vittorioso dal conflitto: Kobarid è il nome sloveno di Caporetto.
Redazione Morandi
In mattinata, i quarantanove studenti e i loro cinque docenti si erano trovati davanti alla maestosità retorica e all’ipocrisia patriottica - questa la percezione diffusa - del sacrario militare di Redipuglia (in provincia di Gorizia), inaugurato, da Mussolini, nel settembre del 1938 per commemorare i quasi settecentomila italiani caduti nella prima guerra mondiale e, insieme, per celebrare il regime fascista nelle sue radici nazionalistiche e militaresche.
Così come nei trecentomila puntini installati sul soffitto di una delle sale del museo di Caporetto, a rappresentare ognuno dei soldati morti sul fronte orientale italo-asburgico, hanno colto l’assurdità di tutte le guerre - che privano gli uomini della loro identità, rendendoli numeri - salendo i “gradini” di Redipuglia avevano potuto leggere grado e reparto dei quarantamila soldati sepolti ma non la loro data di nascita e il paese o la città di provenienza, come se l’appartenenza a uno Stato, a un esercito, venisse prima della loro storia personale.
Sulla strada del ritorno, mentre l’ultima luce di settembre sta scendendo sul pullman ormai prossimo a Finale, negli sguardi delle ragazze e dei ragazzi (stanchi di quella bella stanchezza che solo i viaggi vissuti intensamente lasciano nelle ossa) restano le tracce di un’esperienza di conoscenza e ricerca storica - della curiosità e dell’attenzione mostrata in tutti i luoghi visitati; delle domande, mai banali, e intelligenti, rivolte agli storici e alle guide - che li ha resi consapevoli del fatto che solo fondandola sull’incontro con altri popoli e culture e con chi ha idee e visioni del mondo diverse dalla nostra sia possibile costruire una società pienamente democratica.
Redazione Morandi